I nuovi OGM sono parte del problema, l’agroecologia è la soluzione.
La notte tra il 20 e il 21 giugno il campo sperimentale di riso geneticamente modificato, impiantato dall’Università Statale di Milano e situato in provincia di Pavia, è stato colpito da un atto di sabotaggio e danneggiato.
Ne è seguita una sequela di prese di posizione dai toni particolarmente accesi con richiami all’oscurantismo, al vandalismo, all’ecoterrorismo, alla natura antiscientifica del gesto.
Purtroppo, i mezzi di informazione stanno contribuendo a generare molta confusione, mettendo in ombra sotto questa nube di reazioni scomposte le ragioni di chi da anni porta avanti la battaglia contro la diffusione dei nuovi OGM, che in Italia, per essere resi più digeribili all’opinione pubblica, vengono chiamati con il nome tanto accattivante quanto mistificatorio di TEA (Tecniche di Evoluzione Assistita).
Proviamo a dire due cose anche noi che siano un po’ fuori dal coro.
Innanzitutto, è necessario squarciare il velo di ignoranza su cosa siano questi Tea. Diciamo in primis che si tratta dell’ultimo espediente del sistema capitalistico contemporaneo per tentare di risolvere problemi di ordine sociale ed ecologico con una soluzione tecnica.
Si dice, infatti, che i Tea risolveranno il problema della fame del mondo; che saranno un grande aiuto, assieme alla digitalizzazione delle campagne, per un settore in difficoltà come quello agricolo; che contribuiranno a rendere le colture più resistenti ai cambiamenti climatici, alle fitopatologie e alle conseguenze della crisi ecologica; che, in fondo, sono semplicemente un sistema per velocizzare quelle selezioni varietali che da sempre hanno fatto i contadini.
Innovazione, ci dicono, ci vuole innovazione.
Eppure, a noi sembra che in tutto questo ci sia in atto una volontà politica di nascondere sotto il tappeto i veri problemi della gestione alimentare contemporanea. Questo è il vero oscurantismo con cui dobbiamo fare i conti.
Siamo immersi in un sistema alimentare che spreca e trasforma in rifiuti un terzo dei prodotti, tra logistica, stoccaggio e distribuzione. Che utilizza il 60% delle terre arabili per produrre mangimi per gli allevamenti intensivi o biodiesel. In cui la grande distribuzione di fatto ruba i due terzi del valore di un prodotto al contadino.
È un sistema che per produrre utilizza enormi quantità di energia fossile e materie prime (si pensi alla folle corsa alle terre rare per sostenere il processo di digitalizzazione); che si basa su investimenti senza discernimento in forme di ricerca e sviluppo che, anziché migliorare le condizioni di vita degli agricoltori aumentano la loro dipendenza verso le grandi corporations che controllano e fanno profitti sui mezzi tecnici della produzione (sementi, tecnologie, ecc.). Basta pensare a come gli OGM di vecchia generazione, quelli transgenici, in giro per il mondo hanno legato strettamente l’attività degli agricoltori a quella di Monsanto e delle altre grandi industrie chimiche e sementiere.
Tutto ciò sta dentro una visione di campagna senza contadini, in cui il ruolo e il potere dei produttori è sempre più marginale e la produzione sempre più subalterna agli interessi delle multinazionali. Le stesse aziende che controllano gli input tecnologici promuovono un’idea di campagna sempre più automatizzata e robotizzata, nella quale gli agricoltori rischiano di diventare una variabile dipendente dalla tecnologia, se non addirittura in alcuni casi di scomparire.
Si tratta evidentemente di enormi squilibri che possono essere risolti solo con una profonda e radicale trasformazione in senso agroecologico dei sistemi alimentari. Un taglia e cuci molecolare, come quello su cui si basano i TEA, di certo non può costituire la panacea di tutti i mali; al contrario, all’interno dell’attuale struttura industriale dei sistemi alimentari rischia di rafforzare le posizioni di potere di chi controlla queste tecnologie ed è in grado di brevettare i propri prodotti.
Le nuove tecniche sembrano così rappresentare, più che una transizione ad un sistema sostenibile, un disperato tentativo di rilanciare il modello agroindustriale aggirandone i principali limiti e senza intaccare i paradigmi produttivo e scientifico di riferimento.
Tante sono le incognite con cui ci dobbiamo confrontare in questa fase politica convulsa. Quello che sappiamo è che in tale confusione ogni atto di resistenza che squarci il velo di ipocrisia su questi temi va a vantaggio dell’agricoltura contadina e dell’azione di chi vuole rimettere al centro del dibattito il cibo sano e non il profitto.
Per maggiori informazioni rimandiamo al libro di Stefano Mori e Francesco Paniè, “Perché fermare i nuovi OGM”, 2024, Terra Nuova Edizioni